Cene di San Giuseppe e miniature di una tradizione

                          

Le cene di San Giuseppe sono sempre state una tradizione molto importante per Salemi, la Sicilia e per la nostra associazione.
Per diversi anni abbiamo organizzato un percorso didattico dal titolo "Cene e Miniature di una tradizione", da un'idea originale della D.ssa Lidia Angelo e con la collaborazione di tutti i membri della nostra associazione. Nel corso degli anni alcuni ragazzi degli istituti superiori si sono prodigati, grazie all'alternanza scuola lavoro, per spiegare ai fruitori come la tradizione dei pani di San giuseppe nasce e si trasforma negli anni.
In questo 2020 segnato dall'epidemia di COVID-19, abbiamo deciso di continuare il percorso della tradizione in maniera virtuale.

Dott. Luca Martorana





da un post del 24/03/2015

 Le cene di S.Giuseppe

La Cena di San Giuseppe a Salemi, folklore e rito insieme, è una dimostrazione esteriore di quella religiosità autentica, spontanea, singolare e piena di valore antropologico, solidarietà e fratellanza che è nella natura sociale di ogni uomo.
La festa delle Cene di San Giuseppe si celebra il19 marzo e dura una settimana. Durante i preparativi per la festa, Salemi è interessata da tanti estemporanei piccoli cantieri che vengono costruiti con strutture lignee, fede e tradizione riportano in casa altari devozionali che richiamano figurativamente una chiesa, al cui interno si erge l'altare dedicato al Santo.
Gli altari sono riccamente decorati con arance, limoni, ramoscelli d’alloro e soprattutto con dei caratteristici pani che vengono lavorati dalle donne del luogo in modo da risultare delle vere e proprie opere d’arte. 

La cena nasce originariamente come voto di ringraziamento o come propiziazione di una grazia da parte di una persona devota, che si è impegnata con San Giuseppe a fare un banchetto di beneficenza, ( cci prumettu di inchiri i panzuddi a tri picciriddi), per tre bambini poveri che rappresentano la Sagra Famiglia. 
Si scioglie quindi una promessa, si adempie un voto fatto per fede e si segue la tradizione che ha, da sempre, un cerimoniale, fatto di gesti rituali, preghiere, canti, legato ad una simbologia assai complessa. 
Si costruisce una struttura in legno (oggi anche in ferro) con colonnine portanti, che convergono in alto formando un tetto a cupola; l'architrave e il fregio frontale completano l'impalcatura, che viene interamente ricoperta da ramoscelli di alloro e di "murtidda" odorosa (mirto), elementi ornamentali che hanno un significato propiziatorio. Ultimata la struttura, vi si appendono a decorazione piccoli pani artisticamente lavorati a mano, secondo un ordine ben definito, e arance e limoni appena colti.
 Al centro, addossato ad una parete interamente rivestita con un drappo bianco, si prepara un piccolo altare con tre o cinque ripiani degradanti, tutti ricoperti di candidi lini ricamati, e si appende in alto un quadro raffigurante la Sacra Famiglia. Ai lati si dispongono delle mensole con bianche tovaglie ricamate su cui si poseranno oggetti simbolici di significato costante e di facile lettura: caraffe di vino, vasi di fiori, garofani e "balacu" (violaciocche), frutta, fette di rossa anguria di gesso, lumini, candelabri, vasi con pesciolini rossi, arance e limoni alternate al pane. 
Ai piedi dell'altare si stende un tappeto dove vengono posati un agnello di pane, di gesso o di cartapesta, in riferimento al sacrificio di Cristo, un'anfora con acqua e un bianco asciugamano, disposto a forma di "M", per ricordare la purificazione, dei piatti con germogli di frumento, che inneggiano alla terra, tutti simboli presenti nei sepolcri pasquali. 
Le "cene" non sarebbero complete se mancassero ai piedi delle colonne portanti dei mazzi di finocchi verdi, segno di abbondanza. 
Il "pane dei santi", di più alto valore sacrale, viene appoggiato sull'altare, mentre migliaia di piccoli "pani da mensa", sono appesi tra il verde scuro della cappella, secondo un ordine vincolato anche a regole di simmetria. 
Nel centro del "tempio" o subito fuori,  viene sistemato il piccolo tavolo per il pranzo dei "santi", imbandito con pane, arance, una bottiglia di vino e fiori. 
Tutte le cene, di disegno e dimensioni diverse, ricordano modelli colti rinascimentali ed acquistano una valenza artistica straordinaria, seppur effimera. 
Un ramo di alloro intrecciato all'angolo della via o alla porta spalancata della casa, come una segnaletica culturale, richiama i visitatori devoti, che si susseguono in fitto pellegrinaggio fino a tarda sera per ammirare l'incantevole altare e propiziarsi così la fortuna e la benedizione divina.






Nella «Cena»  è possibile inoltre assistere alla tradizionale recita delle «Parti di San Giuseppe», cantilene e preghiere, litanie o canti, antiche «laudi» popolari in dialetto, tramandate oralmente da padre in figlio, che vengono recitate dai devoti, davanti agli altari, al Santo. Questi monologhi a soggetto sacro, in rima baciata o alternata, diventano vere suppliche di fedeli che, con passione devota e fede profonda, inneggiano alla vita del "Patriarca" ed esaltano la ricchezza della cena a gloria dell’Altissimo. Ogni composizione in versi, con l’incisività del dialetto e con la ritmata cadenza, esprime la forza dei sentimenti della gente isolana semplice e spontanea.
Il cantastorie, fiero depositario della parola «antica», viene ricompensato con un bicchiere di buon vino e porta con sé «un signaleddu di la cena», offerto dal padrone di casa.







L’origine della tradizione
E’ una delle tante usanze e celebrazioni  cristiane sovrapposte a precedenti rituali pagani. Questa del padre putativo del Cristo, coincidendo con l’equinozio primaverile, s’innestò felicemente ad una festa pagana con la quale s’invocava la madre delle messi per propiziarsi un raccolto abbondante. 
Grazie alla devozionalità medievale di famiglie benestanti, forse per esorcizzare carestie o per scongiurare le porte dell’inferno, a causa di ricchezze acquisite non sempre limpidamente, venivano allestite delle “tavole” alle quali venivano fatti sedere tre poveri autentici. 
La personificazione vivente della Sacra Famiglia. 
Ad esclusione della carne, un vero e proprio trionfo del cibo e soprattutto del pane. Con il passare del tempo, da rito contadino ricco di simbologia propiziatrice, la ricorrenza si trasformò in una manifestazione singola di ringraziamento per una grazia ricevuta o invocata, a cui però  partecipa l’intera comunità, sia sul piano economico sia come prestazione d’opera. 
Un mix di folklore e ritualità, espressione di religiosità forse autentica, spontanea, senza dubbio ma densa di valore antropologico, indirettamente un messaggio di solidarietà e fratellanza, valori spesso dimenticati.
Ma come si è arrivati alle “moderne” Cene per  grazia ricevuta?
La tradizione popolare orale ci narra di un agiato “burgisi”, che, dopo avere consumato  l’“agghia”  (una sorta di energetico antipasto mattutino), venisse disarcionato da una giumenta imbizzarrita, mentre scendeva lungo il quartiere della Catena nei pressi del convento del Carmine, soccorso e adagiato su una scala a pioli, viene trasportato a casa e curato dal medico di famiglia, la moglie, preda dell’angoscia,  si  affida a S. Giuseppe per una grazia, dopo avere acceso le candele davanti all’immagine dello sposo di Maria, promette "una Cena addumannata di porta in porta".
Sebbene ricchi, promette cioè di chiedere (“addumannare”) l’elemosina di casa in casa, ripetendo a mò di litania il ritornello “San Giusippuzzu, ci dati nenti ..?” E così uova, farina, grano, promesse di pietanze finisce nella "mmesta", un sacco che portava con sè, così come anche i centesimi, ricevuti come obolo,  vengono custoditi nel borsello di cuoio. 
Ai primi di marzo la sua casa viene invasa dalle vicine che hanno promesso aiuto, impastando quintali di pane, lavorarlo abilmente e preparare il forno. Mentre gli uomini si occupano di montare, adornare e decorare l’altare. 
Tutto il lavoro si svolge in piena armonia.  
E così di anno in anno, fino a diventare a Salemi, un vero e proprio “boccascena barocco”, in cui trionfano i pani, artisticamente decorati, coronati di rami di alloro e di mirto. Le tavole, trasformate in veri e propri altari votivi, traboccano di cibarie, di frutta, di dolci.  
Un rito che si rinnova ogni anno
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Come si prepara il pane

Dopo la questua penitenziale fatta, a volte a piedi scalzi, per tutto il paese di porta in porta, se il voto è pubblicizzato, o a proprie spese se la promessa è « fazzu n’a cena pi chiddu chi pozzu », la padrona di casa prepara il pane con straordinari esiti plastico-simbolici. Aiutata dalle donne del quartiere, amiche e conoscenti, lavora giorni e giorni per modellare con vera creatività ed arte tutto il pane per la cena. S’impastano quintali di farina, si lavora la pasta fino a che diventa omogenea, si divide in tocchetti e con vera maestria si procede alla modellazione figurativa, usando arnesi comuni come temperini, pettini con fitti denti, aghi ditali, forbicine e il cosiddetto « mucaciu », un attrezzo metallico a pinza dentata. Particolarmente laboriosa è la manifattura dei « Pani dei Santi », ma le sapienti mani delle donne più esperte, a cui se ne affida la fattura, sanno creare veri capolavori in miniatura dalle forme più varie.
Per giorni, attorno a lunghe tavolate, giovani ed anziane insieme danno prove di abilità manuali e si trasmettono tecniche e simbologie in un clima sereno e festoso.
Tutto il pane, prima della «‘ nfurnata », è reso lucido da una pennellata di chiara d’uovo battuto con succo di limone e, quando il colore dorato ricopre le teglie, la cottura è ultimata. Allora ogni «panuzzu»si fa «segno» per rappresentare la Passione di Cristo, la vita di Maria e di Giuseppe, tutta la magnificenza del creato, nel «tempio» fatto in casa.
Quando il lavoro degli uomini e quello delle donne è ultimato, si lavora insieme è nasce la «Cena» che viene ad esaltare la vita domestica, la famiglia unita e benedetta, garanzia della continuità.
Tutta la fatica dei preparativi viene offerta come un tributo d’amore a San Giuseppe, modello per ogni sposo cristiano.





 






La Simbologia del pane
Per cogliere il profondo legame religioso delle cene di San Giuseppe bisogna comprendere il simbolismo dei pani benedetti che ripercorrono tutto il rapporto tra l'uomo e Dio e richiamano le meraviglie del Creato.
 La lettura della simbologia ne è chiara dimostrazione. Chi osserva la cena scorge, in alto a destra, sul campanile il Sole, che rappresenta Dio stesso, a sinistra la Luna, la Madonna, e al centro una stella o la cometa della natività. Al centro del fregio frontale spicca la croce, segno della salvezza, con la corona di spine e l'uccellino reale, mentre un po più in alto, c'è un "panuzzu" a forma di gallo, per ricordare il suo canto, quando Pietro rinnegò Gesù; sotto i bracci della croce ci sono due scale disposte simmetricamente attorno, a livello immediatamente inferiore, i tre chiodi, il martello e la lancia, a destra, la tenaglia e la canna con la spugna, a sinistra, simboli della Passione di Cristo.
Procedendo ancora verso il basso si vedranno: al centro, una grande aquila, segno di potenza e ai suoi fianchi due pavoni, segno della resurrezione, due colombe, segno di pace, poi i monogrammi di Maria e Giuseppe. Accanto alla "M" c'è "l'angelo annunziatore" e, come a comporre una fascia di merletto, sono disposti piccoli pani dalla simbologia più varia: la rosa, la purezza; le forbici, la rocca; il filo, la laboriosità; il fiocco (a scocca), che rappresenta la castità della Madonna. Accanto alla "G", sul lato riservato a San Giuseppe, vengono appesi tutti gli arnesi di lavoro del "carpentiere": l'ascia, la sega, la pialla, i chiodi, il martello etc....e baccelli di fave per esaltare la sua generosità, secondo la credenza popolare, ed indicare un elemento nutritivo basilare, come il pane. Si vedono, ancora la chiave che aprirà il regno dei cieli ai mortali, i fraticelli di san Francesco con il saio scuro, (fatto con un impasto di farina e vino cotto o cacao), che ricordano tutto il clero e una vita in povertà dedicata alla preghiera. Angeli che suonano la tromba, farfalle uccelli, sparsi qua e là, simboleggiano il distacco dai beni terreni e l'elevazione spirituale, mentre i pesci sono l'innocenza della tradizione cristiana. Centinaia di "panuzzi" a forma di fiori, frutta, ortaggi e animali pendono tra il fogliame per inneggiare all'abbondanza e alla generosità della terra che ci nutre. Alcune rappresentazioni figurative richiamano una dote, una virtù: il cavallo è l'intelligenza, il cane la fedeltà, la colomba è sinonimo di pace, il pavone, che dispiega la ruota, è la bellezza del creato, l'agnello e il richiamo della Santa Pasqua.


 

 i pani dei santi
L'antica simbologia agraria rappresentata nelle forme della natura e del cosmo si raccorda con la più recente simbologia cristiana anche nei pani più grossi che vengono disposti sull'altare. Guardando i cinque ripiani, ricoperti di bianche tovaglie ricamate, si vedono appoggiati sul primo gradino i tre pani più significativi. Al centro spicca "u cucciddatu" che ha la forma del Sole e simboleggia la luce divina, destinato al bambino che rappresenta Gesù. E' tutto decorato con raffigurazioni plastiche che richiamano i simboli della sua infanzia: la camicina, segno di povertà, i fiori di gelsomino preferiti da Gesù Bambino e tutti i segni della sua passione, e morte: la "cuffitedda", che contiene i cunei e la corda che servirono per fissare la croce, il sudario dove fu avvolto, le spighe e l'uva, segno del corpo e del sangue di Cristo; una "G" sta a centro, circondata da uccelli e fiori. A destra, per chi guarda, si poggia "a parma", simbolo della pace, pane a forma di palma, dove sono minutamente riprodotti tanti datteri, che ricordano il miracolo avvenuto durante la fuga in Egitto, quando, mentre Maria riposava sotto una palma, essa abbassò i rami che le fecero ombra e la sfamarono con i loro datteri; le 12 stelle in cima al pane modellato che rappresentano lo stellario della Madonna assunta in cielo, le rose, le forbici, i cuoricini, segno di amore, il fiocco e tante decorazioni attorno a una grande "M". La palma verrà data alla fanciulla che rappresenta alla Madonna. A sinistra c'è "u vastuni", il bastone di San Giuseppe, che sarà del bambino che lo impersona. E' decorato con una grande "G", al centro, circondata da tanti gigli, il fiore del suo bastone, che rappresentano la purezza, e da pere, mele, uva, assieme ai suoi attrezzi da lavoro che troviamo appesi nella struttura della cena.
Sul secondo gradino si espongono tre pani più piccoli, simili ai grandi, che rappresentano il popolo fedele al popolo di Dio, fatti uguali ai grandi perché Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Al centro del terzo gradino si pone la "spera", cioè l'ostensorio che ricorda l'Eucarestia, contenitore del corpo di Cristo, e due angeli inginocchiati ai lati. Sula quarto ripiano si pongono il calice istoriato con le spighe e l'uva, le ampolline dell'acqua e del vino, sempre di pane mirabilmente intagliato, e ancora due angeli in adorazione. Ovunque fanno da motivo ornamentale, arance, limoni, lumini e fiori. Il quadro raffigurante la Sacra Famiglia, appeso al centro dell'altare, domina l'insieme e raccoglie alla preghiera. Il pane della cappelletta è un'offerta di ringraziamento a Dio per i doni che elargisce la terra e l'augurio per un buon raccolto. Tutti li "cuddureddi" e li "panuzzi" benedetti del "tempio" verranno via via staccati dai padroni di casa e offerte ai visitatori perché possano cibarsene come pane dell'anima e crescere insieme nella carità e nell'amore.

Le 101 pietanze
Nulla nella “cena” è lasciato al caso, tutto segue un rituale assai rigido che si ripete da secoli. Non c’è spazio per esibizioni personali, perché tutto è improntato alla umiltà e alla fede; basti dire, che la “funzione” incomincia con il padrone di casa che lava le mani ai “santi” . Sono sempre i ceti medio-bassi che allestiscono l’altare; i componenti della famiglia, con segno preciso di umiltà, per settimane, infatti, sono andati in giro a fare la “cerca”, chiedendo porta a porta olio, farina, vino, uova, senza vergognarsi e non inveendo verso chi dava poco o niente. Tutto ha inizio a mezzogiorno quando un coro generale tuona a squarciagola VIVA GESU’ GIUSEPPE E MARIA , si sentono spari di mortaretti e qualche fucilata in aria. Tutti gli intimi si danno da fare e incominciano a servire le pietanze ai santi; il loro numero da sempre non può essere inferiore a 101, ma talvolta può anche superare 150/200 piatti. Ed è a questo punto che si vede come si è scatenata la fantasia, non solo della famiglia che ha allestito l’altare, ma anche di tutti quelli che partecipano al “rito” portando da casa una loro portata, perché la varietà delle lavorazioni e il sapore delle stesse non conosce confronti con i migliori cuochi. Siamo in quaresima, quindi è bandita la carne; le pietanze, tutte, hanno alla base il dono che la natura fa all'uomo: frutta di tutti i tipi e poi fave, finocchietti, bietole selvatiche, broccoli, asparagi di montagna e dolci di ogni tipo, ‘mpignulata col miele, cassatelle con la ricotta, torte e tante altre delizie, che, man mano che vengono servite ai “santi” sono condivise con i tanti parenti e gli amici presenti. Un tripudio di festa e fede che ad ogni nuova portata vede tutti ripetere in coro - viva Gesù Giuseppe e Maria - e che alla fine (possono anche essere le 3 o le 4 del pomeriggio), il pranzo culmina con la presentazione della pasta con la mollica: spaghetti al dente conditi con un miscuglio di pane di casa sbriciolato a mano, prezzemolo e zucchero il tutto amalgamato da un filo di olio d’oliva. Una delizia che, per voto, nessuno può sottrarsi di assaggiare.
 La cena si apre con l'arancia, presentata semplicemente tagliata e zuccherata su un piatto ai tre "Virgineddi". La pasta cu la muddica, che conclude il banchetto dei Santi, viene distribuita ai devoti presenti. Le centouno pietanze che vi proponiamo nascono dall'esigenza di raccontare tramite loro la nostra storia, le nostre tradizioni, la nostra cultura. Le vicende della nostra storia, le varie civiltà che in passato si sono susseguite, sovrapposte e fuse tra di loro ci hanno lasciato in eredità una cucina sana, gustosa ed equilibrata nei profumi e nei sapori; una cucina casalinga, semplice, classica e quindi sempre attuale. Le pietanze sono anche una proposta che può valorizzare una cucina povera, ma ricca di estro e di fantasia. Negli ultimi anni, poiché la cucina va di pari passo con la storia, alle pietanze tradizionali abbiamo aggiunto nuovi ingredienti: il burro o la margarina (che sostituiscono lo strutto) ed il parmigiano. L'olio d'oliva, che è alla base della preparazione di tutte le pietanze, è sempre di rigore per i condimenti e le fritture. Alle pietanze preparate con verdure ed ortaggi di stagione abbiamo aggiunto i peperoni, il pomodoro, le melanzane, le zucchine: ortaggi di serra entrati nell'uso comune.
Il pranzo continua con le varie portate, che vengono servite dai padroni di casa e annunciate, di volta in volta, da un rullo di tamburo o dallo scoppio di mortaretti. Il grido osannante "Viva Gesù, Giuseppe e Maria" invita i tre bambini a mangiare tra gli sguardi dei presenti compiaciuti, che accettano un assaggio per devozione




Le parti di San Giuseppe

Dopo il pranzo e per tutto il pomeriggio della giornata in onore di San Giuseppe alcuni personaggi uomini e donne, gelosi custodi di una preziosa eredità, fanno il giro delle case, dove sono state allestite le « Cene », per declamare « le parti di San Giuseppe ». Cantilene e preghiere, litanie o canti, sono antiche « laudi » popolari in dialetto, tramandate oralmente da padre in figlio, che vengono recitate davanti agli altari. Questi monologhi a soggetto sacro, in rima baciata o alternata, diventano vere suppliche di fedeli che, con passione devota e fede profonda, inneggiano alla vita del Patriarca ed esaltano la ricchezza della cena a gloria dell’Altissimo.

Ogni composizione in versi, conl’incisività del dialetto e con la ritmata cadenza, esprime la forza dei sentimenti della gente isolana semplice e spontanea. Il cantastorie, fiero depositario della parola «antica», viene ricompensato con un bicchiere di buon vino e porta con sé « un signaleddu di la cena », offerto dal padrone di casa.

“Jettu un suspiru e acchianu dda ncapu
Sti parti a San Giuseppi eu ci dicu
Cu foru li dovuti di sta cena?
Pitanzi ci nni foru centu e una
e cuddureddi cci nne duemila
e cca davanti c’esti la spera,
c’è fatta perfinu la racina.
Li furficicchi su cca a sta cantunera
chi sunnu di Maria, nostra Signura.
Li piscitiddi ci su n’ta li bicchiera
chi vannu girannu l’acqua pura.
Speru chi mi dati un signaleddu,
chi si trattassi di stari cu pena
nunn’avennu un signali di la cena.”


 


"I GIARDINIERI DI SALEMI"

maschera salemitana per eccellenza è quella de “i Giardinieri”
Una figura aggraziata e cortese che offre caramelle e stupesce il pubblico con la sua “scaletta”.
Nonostante numerose e approfondite ricerche non si hanno notizie certe sull'origine di questa maschera, le uniche fonti attendibili sono quelle tramandateci oralmente dai nostri avi, secondo i quali, pare che il giardiniere esista a Salemi da almeno due secoli. Anticamente la scaletta offriva al Giardiniere un ottimo mezzo di comunicazione con la ragazza amata, in quanto assieme al dono in cima alla scaletta veniva agganciato un bigliettino con versi d’amore. A carnevale tramite la scaletta facevano dono di mandarini o arance alle belle ragazze e limoni agli uomini o a qualche ragazza antipatica. La maschera ricorda la figura del “BURGISI” con stivali di cuoio neri, pantaloni alla zuava, gilè e giacca di velluto marrone; al collo della camicia di tela bianca, viene legato un fiocco di raso rosso, mentre in testa si mette un cappello a falde larghe decorato con dei fiori di carta crespata di diverso colore e nella parte posteriore vengono situati una serie di nastri della stessa carta, i quali, ondeggiando, producono un suono particolare; inoltre a tracollo si porta una “SACCHINA”, oggi piena non solo di agrumi ma soprattutto di caramelle. In mano tengono un attrezzo a pantografo, che in estensione raggiunge circa 5 metri di lunghezza; alla sua cima è fissato un gancio che consente di porgere al pubblico caramelle, dolciumi , mandarini e limoni. Questa mascherata caratteristica di Salemi, è presente soltanto in qualche altra zona della Sicilia occidentale, ma con la denominazione dello "SCALITTARU" palermitano, e "a vecchia" di San Fratello menzionati dal Pitrè. A Salemi è molto diffusa questa maschera e ancora oggi si attende ai balconi l'arrivo dei "Giardinieri" che riescono con “a scaletta” a donare leccornie.
 Affinché questa maschera venisse tramandata e salvaguardata come tradizione autoctona qualche anno fa è nata a Salemi un'associazione che ha lo scopo di tutelare, valorizzare, garantire e promuovere il suovalore da generazione in generazione.


"cuddureddi" di San Biagio
I pani della festa di San Biagio sembrano preludio e anticipazione della "Cena di San Giuseppe”.
I pani in miniatura nascono dalle sapienti mani degli abitanti del quartiere, farina ed acqua, impastate dapprima a mano e poi con la «sbria», un antico attrezzo col quale si gira e rigira l’impasto. Poi l’arte vera e propria è espressa nella lavorazione a punta di coltellino e «mucacia». Ne escono fuori veri capolavori che ripercorrono la vita di San Biagio.
                                                                                            Lidia Angelo